Il formaggio Verlata di Villaverla

La rilevanza agricola delle campagne di Villaverla è testimoniata dalla presenza di un antico canale irriguo, la Roggia Verlata, derivata dall’Astico nel 1275. La costante disponibilità idrica predisponeva il territorio a colture particolarmente redditizie e in particolare alla produzione di foraggio, fattore fondamentale per l’allevamento bovino e di conseguenza per la casearia.

A secoli di distanza, nella pur modificata realtà economica del comune, questa tradizione resta viva nell’attività della latteria sociale Sant’Antonio, che ha stabilimento e punto vendita alle porte del centro, lungo la statale. L’azienda, fondata negli anni Venti, lavora il latte conferito da una ventina di stalle del comune e dei centri limitrofi.
La produzione riguarda innanzitutto alcuni formaggi a Denominazione di Origine Protetta: il Grana Padano e l’Asiago, nelle versioni Pressato, di pronto consumo, e d’Allevo, ovvero stagionato. Altri formaggi, come la caciotta e la tosella, sono prodotti per la vendita nello spaccio aziendale. Alla vetrina aziendale si è aggiunto da qualche anno a questa parte il Verlata, un formaggio che affonda le sue radici nella storia della casearia locale e che per questo ha nel nome una dedica alla famiglia più nobile del luogo.

Si tratta di un formaggio semicotto a pasta pressata, lavorato da latte intero con aggiunta di panna per accentuare la cremosità. Il caglio usato per la trasformazione è di agnello, per dare maggiore personalità al prodotto. Le forme risultano tonde, misurano 25 cm di diametro e 8 di scalzo, per un peso di circa 5 kg; vengono tenute in salamoia per qualche giorno e poi poste ad affinare per tre settimane. La crosta è rugosa e al taglio la pasta si presenta compatta e di colore bianco avorio. Il sapore è intenso con chiaro sentore di latte.
L’accostamento ideale è con la polenta e i funghi. In cucina si rivela utile nella preparazione dei pasticci. Un’interessante variante è il Verlata al Clinto, posto a macerare sotto vinaccia per un paio di mesi, dalla vendemmia alla metà di novembre, ottenendo così un formaggio ‘ubriaco’. Tradizione vuole che questo trattamento prenda origine dall’espediente messo in atto dai contadini al tempo della sconfitta di Caporetto, nella Prima guerra mondiale, per nascondere ai soldati austro-ungarici le preziose scorte di formaggio.

Sia quel che sia, il risultato è gradevolissimo e al termine di questo affinamento la crosta risulta scura, il sottocrosta violaceo e la pasta intrisa dell’aroma dell’uva. L’effetto è tanto migliore quanto più aromatica è la vinaccia e in questo il Clinto è senza dubbio inimitabile.

 

PRODUTTORI E RIVENDITORI:

Latteria Sociale Sant'Antonio, via Sant'Antonio 22, tel. 0445 855096

Il vino Clinto di Villaverla

Villaverla ha specifico motivo d’orgoglio e nostalgia per il Clinto, un vino per così dire ‘storico’ che leggi troppo restrittive hanno penalizzato oltre misura.
La sua vicenda ha inizio nell’Ottocento, quando nel giro di pochi decenni il vigneto europeo venne messo in ginocchio da tre gravi infestazioni: dapprima due funghi, lo oidio (1850) e la peronospora, (1870-80), quindi un insetto, la fillossera (1880-1900). Il rimedio viene individuato nell’impiego di vitigni ibridi, ovvero incroci di varietà resistenti a questi attacchi, le cosiddette uve ‘americane’, sulle quali verranno innestate la maggior parte delle nobili varietà del Vecchio Continente. Tra le più diffuse l’uva Fragola, nota anche come Isabella, e per l’appunto l’uva Clinto, o Clinton, inconfondibili per il gusto che i francesi definiscono ‘framboisier’ (‘di lampone’) e gli anglosassoni foxi (‘volpino’); se ne ricava un vino di modesta gradazione alcolica, ‘di pronta beva’, come dicono gli enologi quando sottindendono il consumo entro la stagione.

 Proprio per questo motivo, a qualche decennio di distanza, una volta completata la ricostituzione del vigneto nazionale, è scattata la messa al bando delle uve ibride, a questo punto considerate come una presenza deteriore. La coltivazione del Clinto a scopo enologico è stata vietata da una legge del 1931 e recentemente ribadita da normative della Comunità Europea. In sostanza la legge consente di coltivare uve come la Fragola o la Clinto per il consumo familiare del frutto fresco, ammettendo anche la possibilità di impiegarle nella distillazione di acqueviti, ma vieta la produzione di vino propriamente detto. Il prodotto di queste uve può essere definito come meglio si crede – «bevanda a base di uva», si legge su certe etichette – ma non vino.
Si tratta evidentemente di una norma troppo restrittiva perché al giorno d’oggi non mancano certo norme a tutela dei vini più nobili. Dunque non c’è ragione di penalizzare ulteriormente produzioni che negli anni sono entrate nell’affetto della gente e possono a buona ragione essere definite tipiche. Questo vale soprattutto in Veneto, nelle zone dove il Clinto in particolare ha trovato suoli argillosi pienamente congeniali. Di questi vignaioli nostalgici Villaverla è diventata la roccaforte e l’annuale Festa del Clinto, che si tiene a villa Ghellini in giugno, rappresenta l’occasione di un approfondimento tecnico finalizzato alla riabilitazione di questo vino. In un recente convegno, per esempio, è stato chiamato in causa l’Istituto Sperimentale di Viticoltura di Conegliano per smontare l’accusa mossa al Clinto di contenere una percentuale eccessiva di tannini e del famigerato alcool metilico.

Così, animati da un certo ottimismo, vignaioli e buongustai possono rivolgersi alle bancarelle di prodotti tipici – vino e distillati, formaggi, bussolà e gelato, tutti ovviamente al Clinto – e alla cena in villa che ogni anno riesce a sorprendere per la fantasia dei cuochi nel coinvolgere il vino festeggiato.